Era la metà
degli anni sessanta, si incontrarono a Milano e nonostante la nebbia si
videro così bene che si amarono da subito. Decisero di sposarsi alla fine di
quello stesso anno.
Lui veniva
dall’Irpinia. A Milano c’era rimasto un anno e poi se ne era andato in Germania
a lavorare alla Ford. Era una faccia da cinema, di
un uomo talmente buono che poteva permettersi di somigliare persino a uno appena
uscito dal “Padrino”. Alla Ford un giorno un altro operaio gli si avvicinò e
gli disse: “Kennedy kaputt!” e lui cordialmente rispose “E ‘sti cazzi”.Dopo circa due anni tornò a Milano a lavorare alla Metropolitana e conobbe lei, che veniva da Roma. Una ragazza dolce. A sei anni era stata adottata, si era impegnata negli studi e aveva appena vinto il concorso nazionale per le Poste.
Era stata tanto brava che al concorso arrivò prima e decisero che una così andava bene per il nord.
Qualche anno fa ero seduta alla loro tavola, a festeggiare il figlio Stefano la sera dopo il Natale. C’era il calore, come sempre, come ogni volta che ti fermavi anche solo per un attimo. Ci raccontarono proprio di quegli anni, dei primi appuntamenti, della timidezza, le gaffe, delle risate e i sacrifici. Della prima figlia che, piccina, si ammalò e dell'immagine che lui non dimenticò mai della sua bimba in un letto d'ospedale. Ricordo il sapore buono del vino e dei racconti e le mie guance rosse.
Da Milano,
dopo qualche anno, vennero qui al Circeo, lei con un trasferimento, lui all’avventura,
pronto a una nuova vita. Si dedicò, in quegli anni di esplosione edilizia, alla
costruzione di impianti elettrici e aprì un negozio di riparazioni e mi
ricordo le estati dopo la scuola che andavo a trovare Stefano che stava in laboratorio tra
frigo e lavatrici.
Lo trovavo, suo figlio, intento a lavorare, più che per passione per la meccanica, noi che
d’inverno traducevamo il greco e il latino e ascoltavamo i Cure, per la
passione per suo padre. Lei è sempre stata la mamma dei suoi quattro figli e di tutti noi che passavamo di lì. Certe estati ospitavano così tanti amici e parenti che qualcuno finiva a dormire sul balcone perché dentro non c’era più posto. Giù in giardino il tavolo per mangiare era immenso e c’era pure l’orto e ho conosciuto in quelle occasioni e ai picnic sul monte Circe così tante persone diverse e indimenticabili, per provenienza, storia, militanza…
Ricordo gli anni in cui uno dei figli cominciò a scrivere per “Avvenimenti”, uno dei più bei settimanali che abbia mai letto e che uscì, all’avanguardia su tutti, persino in edizione per non vedenti. E di quando per la prima volta entrai in quella redazione, bellissima, come se entrassi un po’ a casa mia tanto ne avevo sentito parlare.
A casa loro si respirava sempre l’aria del mondo, si parlava di Occhetto e Berlusconi,
di Bush e Pinochet mentre si condiva la pasta col sugo e si piegava il bucato
appena ritirato.
Non li ho mai visti arrabbiati. Hanno sempre attraversato ogni inevitabile
difficoltà, anche le più avverse, come se ci fosse di peggio nella vita.
Tutto il resto è festa, un picnic pure in pieno inverno.
ingredienti per le pizze fritte campane
un kg di impasto per pizza (io faccio questo qui)
200 gr di passata di pomodoro
500 gr di mozzarella
uno spicchio d'aglio
origano
sale
olio per friggere
Dividere l'impasto della pizza in una ventina di palline, da riporre su una teglia ricoperta di cartaforno. Fare lievitare le palline coperte con un canovaccio in un posto caldo (d'inverno può andare bene il forno spento con la lucina accesa)almeno per un paio d'ore.
Nel frattempo, tagliare la mozzarella e lasciarla scolare in uno scolapasta. Insaporire la passata con aglio, sale e origano.
Una volte lievitate bene, stendete le palline dando una forma circolare. Al centro ponete un cucchiaio di ripieno di pomodoro e mozzarella e chiudete a mezzaluna. Ripiegate i bordi e premete coi rebbi di una forchetta per sigillare. Friggere in olio caldo.