Saranno passati circa quindici
anni dai giorni trascorsi in quella grande casa dietro ai Quattro Canti.
Bastava proseguire poco oltre e
ti ritrovavi davanti alla cattedrale, che ogni volta, in quei giorni afosi, mi
sembrava mescolarsi all’aria, così simile ai castelli costruiti in spiaggia
lasciando gocciolare la sabbia bagnata dalle dita.
Era settembre e Palermo aveva
ripreso vita dopo un po’ di quiete per le ferie di agosto.
L’appartamento si trovava all’interno
di un palazzo storico, dove ampi balconi si affacciavano all’interno della
corte rendendo familiari tutti i vicini. Ci stavamo io e il mio ragazzo di
allora, in vacanza. I due fratelli padroni di casa, una coppia di studenti di Berlino, due ragazze dell’est, anche loro studentesse, e una siciliana fuggita
da un piccolo paesino dell’entroterra e rifugiatasi lì, in una piccola
stanzetta.
Ogni giorno un viavai fluido e
pacifico di amici che portavano da mangiare, buon vino, chiacchiere e nuove
scoperte: chimici, architetti, ballerine, medici, un cuoco che ci ha sfamato
tutti per giorni, studenti, stranieri di passaggio, stranieri trapiantati,
palermitani espatriati e di ritorno.
“Ma lo sapete chi ci abita qui
su?”. Ci fa un giorno il cuoco. “I Signori C., lui è siciliano e lei è romana.
Lei avrà circa sessant’anni, lui più di ottanta e si sono innamorati
qualche anno fa… Stanno proprio qui sopra di noi, vedrete che presto
v’invitano.”
...
“Ma ancora non li avete visti?”
...
“L’avete sentita cantare,
almeno? Lei alla sua età ha la passione per la birra: beve e canta stornelli a
squarciagola!”
Fu in un giorno di pioggia che avvenne.
Eravamo tutti in cucina e, finito di piovere, qualcuno si accorse che fuori
c’era l’arcobaleno. Uscimmo in balcone e la Signora C., affacciata sopra di
noi, gridò: ”Romani! Romani! E lo sapevo che prima o poi v’avrei trovato!
Venite, venite subito su chè v’aspettiamo!” E intonò uno stornello...
Non lo sapevamo ancora che ci
aspettava e come mai, in quei giorni, tutti ci avessero in qualche modo avvisato.
Lei era piccola, coi capelli
corti e grigi. Lui alto, magro e flemmatico. Lei parlava veloce con voce roca e
rotta da risate, lui un nobile con le vocali lunghe e quasi sussurrate. Ci
fecero entrare in un luogo, la loro casa, che forse solo Federico Fellini
avrebbe potuto allestire con un gusto altrettanto onirico.
Un salone enorme, con
diversi divani damascati e poltrone e tappeti, vetrine di oggetti, lampadari
come a dover illuminare serate di balli in maschera. Su una credenza, cornici
con foto e anche sul muro, foto con ritratti vecchissimi e qualcosa scritto a
penna. Lui ne prese un paio e ce le avvicinò, per farci scorgere con meraviglia che di
Verdi e di Wagner si trattava, che suo nonno aveva ammirato e conosciuto e a
cui era riuscito a strappare una foto con dedica, cent’anni prima, come ogni
ammiratore che si rispetti.
E tra le chiacchiere vocianti e
le risate della moglie continuavamo a guardarci intorno, a scoprire giradischi,
vecchie radio, un grammofono, ritratti alle pareti e libri, tantissimi libri
appoggiati ovunque. E, come in ogni antica casa che si rispetti (per me ulteriore
sorprendente scoperta in mezzo a tanto), ogni stanza conduceva ad un’altra
senza soluzione di continuità. E così dal salone si entrava direttamente in una
cucina bianca col tavolo e i piani di marmo e da questa in camera da letto, col
baldacchino, le pareti di stoffa, la cipria e i profumi sulla toeletta in un
clima di fascinazione dannunziana. E con le porte aperte, da lì con gli occhi
abbracciavi tutto il resto manco ci servisse altro ad aumentare lo stupore.
Dalla camera uscimmo su uno dei
terrazzi, con lui che ci parlava della Palermo che si affacciava da lì,
indicando i punti in lontananza, con gli occhiali calati sul naso. E finì ai
ricordi e agli antenati, poiché il suo nonno di prima fu un garibaldino,
sbarcato in Sicilia coi Mille e divenuto il primo sindaco della storia di
Calatafimi.
“E sapete una cosa? La casa
continua: c’è un’altra porzione al di là del terrazzo. Ma ... ma non penserete mica
che io sia ricco, vero?” E mentre ci conduceva oltre, venimmo a scoprire che a
causa dei bombardamenti su Palermo durante la guerra, molti fuggirono via, abbandonando,
spesso per sempre, le proprie abitazioni. Alcuni dei proprietari non tornarono
mai più nelle loro case, perché la guerra se li era portati via o perché
semplicemente erano emigrati.
Fu così che lui, essendosi
innamorato di quella casa e desiderando acquistarla, si mise alla ricerca dei
vecchi proprietari o, quanto meno, dei discendenti. Tra le scartoffie comunali
e le ricerche personali riuscì a trovare i nipoti, che oramai vivevano in
Svizzera e non gli chiesero nulla.
Fu così che tutto fu suo per
pochi soldi, versati come tassa che il Comune richiedeva in quelle situazioni.
Nel frattempo la moglie cantava in
cucina.
Ci salutammo e lui ci porse
delicatamente il suo biglietto da visita, che a distanza di tanti anni ancora
conservo e che mi riporta ogni volta a quelle mani magre e dinoccolate, al suo sguardo pensoso e distaccato.
S’era arrivati al tramonto.
Scendemmo e restammo in casa, ad aspettare un nuovo ospite e una nuova
storia come ogni sera.
Se c’è una ricetta per Palermo, per questa città che rividi ancora alcuni anni fa con immutato
amore, per queste persone che riempiono i miei ricordi, non lo so. Sicuramente
non una sola, come del resto non è solo questa la storia che vi vorrei raccontare. Di questa casa e del cuoco avevo parlato già tempo fa, preparando la
ricetta delle milinciani a' la parmiciana che mi fu data proprio da lui con
tanto di riferimenti storici.
Siccome uscendo da lì e girando
al primo vicolo sulla sinistra si scende alla Vuccirìa, allora sappiate che
proprio là troverete ancora chi vende la zucca fritta in agrodolce e che proprio
là ci andavamo a sfamare quando il cuoco era impegnato coi turni del nuovo
lavoro di telefonista al call center. I palermitani la chiamano “u ficatu ri
setti cannola” (il fegato dei sette rubinetti), perché viene venduta dagli
ambulanti accanto alla fontana del Garraffello, in una piazza del mercato, che
ha appunto sette cannule, sette rubinetti. Inoltre il nome fa riferimento al fatto
che era un cibo povero, che comprava chi, non potendosi permettere il fegato,
si accontentava di una sua versione umile.
E questo, per ora, su Palermo è tutto.
ingredienti
500 grammi di zucca rossa
olio extravergine d’oliva
1 spicchio d’aglio
¼ di bicchiere di aceto
un cucchiaio di zucchero
sale
foglioline di menta
Mondare la zucca e tagliarla a fette sottili oppure julienne(io la preferisco così). Passarla nell'olio caldo e, una volta cotta, metterla da parte in un piatto. Aggiungere nell'olio usato per la fritura uno spicchio d'aglio (intero o a pezzetti, secondo il gusto), lasciare scaldare e aggiungere di nuovo la zucca. Versarvi l'aceto in cui avrete sciolto lo zucchero e far sfumare a fiamma vivace.
Adagiare infine su un piatto da portata e aggiungere qualche fogliolina di menta.
Si può conservare in frigo per un paio di giorni.
1 commento:
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