L'altro giorno al lavoro mi è capitata davvero un' occasione un po' speciale. Due ragazzi di Latina, infatti, hanno messo sù una piccola casa editrice di fumetti, la Tunué, e sono venuti in ufficio per regalarci una copia del fumetto dedicato a Bottecchia, grande figura del ciclismo degli anni '20. Ora, dovete sapere che, pur lavorando alla federazione ciclistica italiana, né io né il mio capo siamo grandi esperti (anzi, per niente!) del ciclismo agonistico, poiché veniamo entrambi da tutt'altra formazione e il nostro compito lì è di promuovere tutto quello che è legato alla bici in termini di sostenibilità, cultura et cet.
Così 'sta copia del fumetto è rimasta per un po' praticamente intonsa sulla scrivania del capo, non intuendo cosa ci potessero riservare quelle pagine e presi in quei giorni da tutt'altre faccende. Il fatto è, però, che ogni volta che qualcuno entrava e vedeva il nome di Bottecchia, era tutta una profusione di "Ahh!! - Uhh! - ...Bottecchia!...".
Fino a quando ci arriva una nota niente po' po' di meno che di lui, il Presidente (no Silvio, che pensavate!!)chiedendoci una recensione di siffatto fumetto.
Così mi sono ritovata a leggerlo e scoprire un uomo che si tira dietro una vita coraggiosa, incredibile, agli inizi di un secolo in cui la storia conosce la prima guerra mondiale, la fame nera, la salita del fascismo.
Ottavio, ottavo figlio di un mugnaio, a scuola può andare solo per un paio di inverni perché la famiglia ha bisogno di braccia. A dodici anni diventa apprendista calzolaio, poi manovale e carrettiere e conosce la lontananza e il sacrificio degli emigrati negli anni passati in Francia. Poi la guerra, dove si distingue per coraggio, forza e un’incredibile abilità con la bicicletta, sua passione di sempre, per cui viene insignito di una medaglia al valor militare.
Ma la bicicletta gli porterà ben altri onori, visto che partecipando a gare di dilettanti viene notato da Luigi Ganna, primo vincitore del Giro d’Italia, che lo ingaggia e lo incoraggia a credere nella sua sorprendente potenza e resistenza. Così le prime gare importanti, fino al Giro d’Italia che corre senza squadra e lo vede quinto in classifica. Poi l’incontro, dopo l'ennesima gara da vinicitore, alla stazione di Bologna con Borrella, giornalista venuto da Parigi e alla ricerca di qualche corridore promettente ma sconosciuto (così da non richiedere troppi soldi per l'ingaggio) da proporre al Tour de France. Bottecchia con la faccia scavata e volitiva, il naso aquilino e lo sguardo inconfondibile di chi ha patito a lungo la fame. Mangiava pane e formaggio, accanto a sé la sua bici e la bisaccia con i viveri del rifornimento intatta, conservata per portare qualcosa da mangiare anche alla sua famiglia.
Viene reclutato, va in Francia dove il patron del Tour, Desgrange (detto “nonno assassino” e “sanguinario” per come sceglieva i percorsi), lo sceglie come gregario proprio dei suoi miti: i fratelli Pellissier. In particolare Hénry sarà per lui una fonte di insegnamento non solo sulle assurde strade degli allenamenti e delle gare, ma anche nella visione del mondo di chi si proclama anarchico e nemico dei regimi. E Ottavio si trovava in Francia grazie a una petizione popolare in cui, al primo posto, c’era proprio il nome di Benito Mussolini in cerca di eroi dello sport che facessero grande il paese. Ma Bottecchia corre nella Francia democratica e repubblicana, corre e scala le tappe massacranti del Tour, abituato alla fame, al freddo, alle estreme fatiche che portano il fisico oltre i limiti possibili, non si ferma, non cede e dalla prima all’ultima tappa indossa la maglia gialla (incredibile!), togliendola solo in un tratto, per non farsi riconoscere, dove teme di subire un agguato da un gruppo di fascisti che gli avevano fatto pervenire minacce in seguito al suo rifiuto, davanti ai giornalisti, di ringraziare il Duce per il fatto di essere lì.
Corre e vince il Tour nel ’24 e nel ‘25, i francesi lo adorano, per loro è “Botescià” e le ricompense economiche cambieranno completamente la sua vita. Si trasferisce con la sua famiglia a Pordenone, realizza il sogno di aprire una “bottega di biciclette”, sogno che va ben oltre quanto lui avesse osato sognare, perché con i soldi delle vincite aprirà una vera e propria azienda che ancora oggi produce bici che portano il suo nome. Umile di cuore, di quel benessere ne fa una possibilità di “sistemare” anche altre persone a lui vicine e a chi gli faceva notare tanta abbondanza rispondeva “Son diventà sior, tosati… Sior de poter magnar!”.
Continua a correre, si allena Ottavio con gli amici di sempre, tra le valli e le salite del Friuli degli anni ’20 che ho rivisto nei filmati storici del tempo che si trovano in rete e che mi hanno riportato alla bellezza e alla fatica di quei luoghi e di quegli anni. Ma la vita di chi ha conosciuto tanti sacrifici spesso si ripresenta con la stessa crudezza anche dopo aver vinto su ogni ostacolo. Nel marzo del ’27, infatti, Bottecchia cade in allenamento e non può partecipare alla Milano-Sanremo. Ha trentatré anni e forse può bastare. Ma non molla: riprende gli allenamenti fino a quando arriva la notizia della morte improvvisa, per incidente, del fratello Giovanni. Il dolore per questa perdita è il più grande degli ostacoli. Finchè il tre giugno decide di reagire, sale in sella nonostante quel giorno nessuno, cosa mai accaduta, sia disposto ad uscire con lui. Va da solo, oltrepassa tutti quei luoghi che pochi anni prima avevano conosciuto la guerra e la disfatta di Caporetto. Arriva a Gemona, sale per la salita di Clauzetto, al bivio per Peonis e là viene ritrovato a terra. Forse un malore, forse il pestaggio di un amante della moglie, o un contadino che anni dopo confesserà di averlo colpito con un bastone perché gli stava rubando l’uva (ma a giugno l’uva non è matura…). Forse la mafia delle scommesse. Ottavio muore dodici giorni dopo in ospedale, poche settimane dopo suo fratello Giovanni. Ed è proprio la concomitanza con la morte del fratello ad alimentare l’ipotesi che in realtà si sia trattato di un agguato fascista. Giovanni era in bicicletta e viene travolto dall’auto di Franco Marinotti, testimone di nozze del Duce. Alla famiglia di Ottavio viene proposta una transazione di centomila lire (l’equivalente di centocinquantamila euro), ma lui rifiuta. Forse il suo gesto viene interpretato come una sfida da punire con un pestaggio che alla fine, però, può essere andato oltre le intenzioni. La vedova per incassare l’assicurazione di Ottavio accetta la tesi dell’incidente, il fascicolo viene chiuso e di esso non ne resta traccia.
Quello che rimane però, a distanza di generazioni è l’emozione forte che investe chiunque senta il suo nome, legga la sua storia.
2 commenti:
ciao Valentina! bellissimo questo post, non sapevo nulla di questo ciclista... ma adesso so già a chi regalare il libro :)
un caro saluto!
brava!!!!!!!!
kissotes!!!!!
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