31 agosto 2016

Da uno zaino all'altro.



Se è vero che gli angeli sono biondi e sanno volare, allora io forse ne conosco due. Hanno sette e dieci anni, quasi undici, parlano tra di loro la lingua dei filosofi, conoscono lunghi silenzi e improvvise incalzanti domande. Sono angeli di nuova generazione e volano in aereo dalla città di A. alla città di T., perché 1600 km a batter le ali ci si stanca non poco e ci vuole troppo tempo.

Arrivano nel mezzo di ogni stagione e li ho incontrati finora sotto la pioggia di primavera, col freddo luminoso di inizio d’anno, tra le foglie d’autunno e il profumo di mandarini per merenda, nelle onde del mare e tra buche e castelli.

Ingrid è troppo piccola per loro e, se pure la sua pelle di latte e il nome nordico potrebbero essere un buon pretesto per riconoscersi amici (ché su certe cose a essere simili si fa prima a capirsi), lei a lungo li ha guardati da lontano e loro a lungo ne sono stati alla larga.

Finché una sera di queste ha deciso lei. Ha scelto l’angelo di sette anni, quello che per statura è più facile da arrivare a guardare negli occhi e gli ha chiesto di darle il suo burattino. Perché se pure si arriva dalla città di A., dove si parla la lingua dei filosofi e si praticano lunghi silenzi, il richiamo degli spettacoli di strada di Pulcinella e i suoi compari malfattori è comunque magico e irresistibile. Lui, riluttante, ha ceduto, ricevendo in cambio uno sgargiante tubetto fucsia di bolle di sapone. E ha dovuto soffiare, su insistente invito di una che forse tedesca non lo è solo di nome.

E’ accaduto così, in un gesto e in un istante, che quella distanza si è ridotta e un po’ anche per me che, timida persino coi bambini timidi, a loro ho sempre voluto bene da lontano.

Loro sono maschi e giocano da maschi, ma Ingrid non si tira indietro. Neppure su un canotto, sobbalzati dal mare grosso ancora e ancora quasi a scivolare via. I maschi fanno la guerra di bombe di sabbia, tuffi acrobatici, scavano, innalzano, assemblano, si rincorrono, cadono e ricominciano, fanno a gara di peperoncini e lasciare i nostri giochi per i loro ci fa ridere e a volte un po’ stancare. I maschi sono tre, gli angeli e il padre, che no, per restare in tema, non è il Padre Eterno, ma la pazienza comunque ce l’ha abbastanza infinita.

E di pazienza, lo ammetto, ce ne vuole pure con due femmine come noi, che alla sera ci viene sonno sul più bello e rinunciamo a uscire, mentre loro sono già pronti sulla bicicletta. E certe volte pranziamo presto sotto il nostro ombrellone, rinunciando al rito dei contenitori che escono fuori dallo zaino dei ragazzi in numero inverosimile, pieno di verdure fresche, grigliate, frutta pulita, sbucciata e in comodi pezzi, pani bianchi, integrali, morbidi o croccanti, affettati, focacce e formaggi e alici fritte e poi in agro e olive condite e tutto il necessario. Ma quelle volte che resistiamo per mangiare più tardi e si condivide tutto ciò, ai maschi piace sempre di più il nostro pranzo che sparisce come in un gioco di prestigio sotto i nostri occhi nelle loro pance e a noi non restano che i contenitori preparati da loro così bene che ci viene da guardarli un po’ prima di decidere davvero di toccarli e assaggiare. 
L’estate finisce e il volo dalla città di A. alla città di T. richiama i nostri amici per la rotta inversa. Inversa e contraria, a dirla tutta, contraria a quel punto di felicità che come al solito sembra aver trovato solo all’ultimo il tempo di diventare pienamente matura, come per ogni amicizia estiva che si rispetti, che proprio sul finale si stringe e si dilata e attutisce tutto con la promessa del prossimo incontro. Di quando saremo un po’ più grandi e un po’ cambiati e ancora una volta dovremo imparare a riconoscerci, tra foglie d’autunno e mandarini per merenda.
A guardarla oggi la spiaggia, alla fine del temporale, a noi che restiamo sembra ancora più deserta. 

La torta al cacao della ricetta è quella della prima merenda di questa estate veloce e leggera, fatta di contenitori pieni di cose buone che hanno viaggiato da uno zaino all'altro.



















ingredienti
180 g di albumi
170 g di zucchero
100 g di olio di semi di mais 
175 g di farina 00 
150 g di acqua
30 g di cacao amaro 
una bustina di lievito per dolci

Versare lo zucchero in una terrina, miscelarlo all'acqua e all'olio e unire poi la farina, il cacao e il lievito setacciati.
Incorporare delicatamente gli albumi montati a neve, con movimenti dal basso verso l'alto per non smontarli, fino a ottenere un composto liscio e senza grumi. Trasferire l'impasto in uno stampo imburrato e infarinato.
Infornare a 180°C per circa 30 minuti.



 

29 giugno 2016

Il pranzo del mare, Giotto e il volo d'uccelli.



L’ha trovato dentro un fungo di plastica. Si chiama Giotto e ha quatto anni.

Pensavamo di essere le uniche coi piedi nella sabbia bollente davanti ai giochi del mare. Dopo un attimo di esitazione, si è diretta verso il fungo e dalla finestrella lo ha visto. 
“Giochi con me?”. Lui ha alzato gli occhi, ha continuato per un po’ a lisciare la sabbia con la mano, poi finamente è uscito.

Si sono messi alla prova, all’inizio, senza dirsi niente.

Lui ha fatto lo scivolo quello col ponte, e lei dietro. Poi è andato alla parete per l’arrampicata e questa era difficile. Ingrid s’è avvicinata, m’ha solo guardato senza dire nulla, per non farsi scoprire, e io ho capito che dovevo darle una mano. Quando lui se l’è ritrovata sulla vetta della parete, ha capito che si poteva fare. Così da amici sono diventati amici per la pelle.

Lui le fa: “Come ti chiami?”.

“Ingri”.

“Io Giotto Bonelli. Vieni.”

Giotto si arrampica sul tetto del fungo (questa è veramente difficile), ma Ingrid resta a guardarlo e gli fa a mezza voce: “Attento…”.

Così per un po’, parlando solo il necessario, al timone dell’imbarcazione, forte forte sui dondoli, a riposare sulla sabbia all’ombra.

Sono rimasta a guardarli e a chiedermi dove fossero la sua mamma o il suo papà. Perché avrei voluto capire da dove venisse quel bimbo spilunghetto e con gli  occhi spiritati. 
E invece era solo, avventuroso e sicuro.
Sono rimasta a guardare il mistero dei loro giochi che ricordavano gli uccelli in volo, quando virano tutti insieme verso una nuova direzione con un linguaggio segreto e inaudibile.

Così per un po’, fino a quando Ingrid, vedendo arrivare le sue cugine, è corsa ad abbracciarle e si è allontanata allegra dietro di loro. 


Io mi sono voltata a cercare Giotto, per salutarlo. Ma lui non c’era già più.



P.S. Se non fa troppo caldo e vi piace restare a pranzare sotto l'ombrellone, questi muffin ripieni di ricotta e zucchine sono senza burro, leggeri e buonissimi. E piacciono ai bimbi!



ingredienti
200 g di farina 00
80 g di ricotta
3 uova
100 ml di latte
100 ml di olio di semi
400 g di zucchine
1 bustina di lievito 
foglie di basilico
sale e olio extravergine q.b.

Far insaporie le zucchine tagliate sottili in un tegame con un filo d'olio e.v.o. A fine cottura cospargere di basilico.
In una ciotola battere leggermente con una frusta le uova e l'olio di semi, aggiungere la ricotta, versare la farina col lievito setacciati e amalgamare con cura.
Versare negli stampi da muffin o nei pirottini di carta (a me ne sono venuti 10 di media grandezza) e infornare a 180° in forno statico preriscaldato. Cuocere circa 30/40 minuti.

9 giugno 2016

Fragole e cioccolato bianco: di come Ingrid arrivò, della fisica teorica e del maestro Miyazaki.



Quando aspettavo Ingrid, a un certo punto sopraggiunse l’insonnia. La sera crollavo come mio solito, ma poi, nel cuore della notte, spuntava impellente un pensiero che mi svegliava all’istante. Ogni volta diverso, ma sempre dallo stesso terreno. La fisica teorica.
Quel poco appreso in studi fatti per lo più di greco, letteratura e arte classica, quel poco che appresi riemerse, con chiarezza. Sembrava, in quel periodo, che l’unica cosa che mi importasse fosse il funzionamento del mondo e dell’universo e mi prese a leggere sui bosoni, il big bang, stringhe e superstringhe. La notte ripensavo a Bohr (ebbene sì…), all’amicizia con Einstein e ai duelli a colpi di rompicapo tra indeterminazione e relatività.
Mi teneva sveglia il gigantesco mistero dell’entropia, che dal calore rilasciato dal motore del frigo mi portava ai corpi caldi dell’universo e all’esigenza perfetta e speriamo irraggiungibile di equilibrio.
La materia dell’universo, col suo silenzio e le distanze, le stelle  e i pianeti e i sistemi, mi sembravano ciò che di più simile ci fosse a quello che avveniva proprio nel buio misterioso della mia pancia.
I libri di Margherita Hack mi fecero buona compagnia.
Ma in quella polvere di libri e di stelle a un certo punto qualcosa smise di funzionare e io mi ritrovai costretta a letto, questa volta col greco Markaris e il suo commissario Charitos*, ridotto pure lui un colabrodo.
Feci appena in tempo a riemergere da un Atene afosa quanto Roma e dai pomodori ripieni che la moglie Adriana preparava per rimettere in piedi il commissario, che fu la volta del letto della clinica, dove mi tennero a bada brave e premurose infermiere e dove nel frattempo assistetti a un numero infinito di travagli e nascite, non dormendo mai.
Cos’era accaduto?  
Dov’erano andate a finire quelle leggi brevi e rassicuranti che in poco contenevano tutto?
Non era così che doveva andare e intorno a me vedevo stanchezza e angoscia e amore tutti in egual misura a confondermi e sostenermi in alterni e interminabili attimi.
A un certo punto smisi di passare il tempo guardando fuori da un vetro e cominciai coi film di Miyazaki. L’incanto e la leggerezza delle sue animazioni riuscivano a trasportarmi al cuore della mia infanzia, quando tutto era possibile e la realtà conteneva la fantasia.
Era possibile, attraverso di lui, raggiungere persino l’aria che al mare, al tramonto, si fa un po’ densa e appannata e profuma di salsedine.
Fu così che a un certo punto decisero che Ingrid nascesse, alla sprovvista. Io avevo ancora la pazienza di aspettare e altri film da guardare, ma così fu deciso.
Venne al mondo l’ottavo giorno dell’ottavo mese, dove l’otto in fisica è il segno dell’infinito e per lei quest’infinito raddoppiò.
Non provai alcun dolore e i medici nel tirarla fuori se la cantavano allegramente. Quando la vidi, dissi: “E’ bellissima”. E mi addormentai.
Dormìi un giorno intero, finalmente.

Nel pensare a tutto ciò, più di tutto mi resta in mente il procedimento. Tutto mi è sembrato, nelle vicende della realtà come per le teorie e le immaginazioni, seguire un procedimento. Nuovo, giusto e sicuro.
Questa marmellata è rossa sgargiante e profuma come le crostatine del Mulino Bianco di quando ero piccola (quelle alla fragola che quando ero incinta ho tanto desiderato, scoprendo che non le fanno più).
Ha un procedimento che prevede l'attesa, è speciale, una strada insolita ma formidabile inventata dall’alsaziana Ferber e qui già sperimentata. In casa vi ritroverete appunto con quell’odore buono che vi farà ripensare alle scatoline di cartone che contenevano la sorpresa. 
A me più di tutto piacciono le manine dolci e un po’ appiccicose di Ingrid mentre cerca di mangiarla tutta mantenendo intatta la fetta biscottata.

P.S. Grazie a Tonino, per Markaris, per la fatica, la pazienza, l'amore e soprattutto per Ingrid.
Alle nostre famiglie, per tutto.
Grazie a Lola ed Elsa, per Miyazaki e l’amicizia.
E agli alberi di Villa Gordiani, fuori dal vetro.

*Petros Markaris, Si è suicidato il Che, Bombiani ed.
















ingredienti
1kg di fragole
300 g di zucchero 
1 limone
60 g di cioccolato bianco


I fase
Sera: lavare e asciugare le fragole con un panno. Tagliarle in pezzi e metterle in una ciotola con zucchero e limone. Riporre in frigo.


II fase
Mattino: mentre vi preparate la colazione, versate anche le fragole in una pentola e fatele bollire per 4/5 minuti. Lasciatele raffreddare e riponete di nuovo in frigo.


III fase
Sera: mentre preparate la cena e magari cambiate pure ripetutamente canale da Rai Yoyo a Cartoonito su richiesta insistente di vostro/a figlio/a, mettete le fragole in uno scolapasta con la pentola sotto. Il succo raccolto fatelo bollire per dieci minuti, poi versarvi le fragole e fate bollire un'altra decina di minuti. Spegnere. Aggiungere il cioccolato bianco fatto a pezzetti e sottratto a manine golose e versare in barattoli sterili. Fatto.

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