17 maggio 2016

Irma, le acciughine e la terribile arte del motore a pedale.

C’è una scalinata ripida che finisce con una porta finta. Quella vera è sul lato della scala, ti appare nel bel mezzo del nulla e bisogna fare attenzione quando si apre.

Entrare è come varcare un piccolo confine col reale. Tutto quello che sembra non è.

Le pareti, in parte circolari, sono coperte da mobili pieni di libri e vecchi ricordi. Da qui parte una scala che porta a un altro piano.

Al centro della stanza un tavolo, tondo, col centrino in mezzo e intorno le sedie rivestite di velluto. Il lampadario coi pendenti di cristallo, un divanetto e un tavolino che tavolino non è, ma due panche accostate e nascoste da una tovaglia. Un cucina piccola, sul lato sinistro della stanza, e una dispensa bassa con le tendine al posto degli sportelli perché prima era una libreria.

Lì vive, lavora e si muove con la grazia di un pettirosso la mia amica Irma, che ha tanti anni, poche rughe e una voce da bambina. E che quando arrivo mette su un po’ di musica.

Tira fuori la mia macchina, l’appoggia sulle panche che sono un tavolino e io comincio a cucire. Tra ritagli di stoffa e lavori da ultimare, lei ignora pazientemente tutte le mie insicurezze e mi incoraggia nella terribile arte del motore a pedale.

Una mattina si lavorava, io la ascoltavo darmi consigli e riflettere sui tempi che cambiano, quando scoppia un temporale. Sale di corsa al piano di sopra per chiudere le finestre e finalmente mi chiama, mi dice di salire. Avevo più volte cercato di immaginare, fare ipotesi, proiettare le sue stramberie anche lì su.

Salgo in un attimo e mi dice di avvicinarmi. Da lì, da quella finestra di una vecchia casa, in alto nel borgo storico del mio paese, si affacciava la distesa livida e tempestosa del mare, col cielo scuro che sembrava cascargli addosso. Siamo rimaste un attimo in silenzio, poi mi ha chiesto di restare lì a lavorare, con la sua macchina. Mentre è scesa a prendere il necessario, mi sono guardata intorno. Una stanza divisa in due da un paio di pannelli di compensato, verniciati di bianco e tenuti insieme da vecchie cerniere e qualche martellata di chiodi. Da una parte la camera da letto, con un’altra finestra sul mare, e dall’altro il suo spazio di lavoro. Una macchina per cucire di quelle storiche, di ghisa, e una sedia di legno scuro senza alcun comfort. Poi l’asse da stiro: uno scaffale riadattato, imbottito, ben sistemato per l’uso. Tutt’intorno stampelle appese con casacche accorciate, gonne ristrette, vestiti e maglie su misura.

Mi fa: “Siediti pure lì, con questa lavoro io e ti faccio vedere qualcosa di nuovo”. Io mi siedo lì, un fustino del Dixan. “Tranquilla che resiste, mettiti bene il cuscino per stare più comoda.”

La guardavo lavorare, annuivo alle sue spiegazioni, ma non c’ero più.

Immaginavo lei e sua sorella e la mamma e il papà, abitanti un tempo tutti quanti di quel luogo incantato. Immaginavo, non so perché, i loro capelli, le trecce da rifare al mattino, i sali e scendi per quelle scale, le bambole, alcune ancora presenti, lì intorno, coi vestiti cuciti a mano.

Guardavo il pavimento, uguale a quello di mia nonna e ripensavo alla cucina, alla spesa lasciata sul tavolo, al sugo che bolliva per ore in pentola e le spolverate di farina sul tavolo.

Tornavo al presente solo quando lei si girava a guardarmi coi suoi occhi vivaci. O per risistemarmi il cuscino.

Così è qui che svelo un altro mio segreto, di quando ogni tanto al mattino sparisco, rapita, incantata dalle mani abili di una vecchina, dalla sua voce allegra e da una casa di meraviglie. Ancora e sempre intimorita dal motore a pedali della macchina per cucire, da un nuovo mestiere che chissà se sarà mai veramente il mio, alla ricerca però sempre di una strada di gioia e colore.

La ricetta che vi lascio viene da una nonna e la racconta Giulia. Per me è spuntino, a volte, ma accompagnato con un po’ di verdura diventa volentieri anche pranzo, quando di ritorno mangio in fretta e alla ricerca di sapori intensi.



















Ingredienti
pane toscano (o un pane casereccio della propria regione)
burro
acciughe sotto sale o sott'olio
capperi (pure, sotto sale o aceto)

Imburrate ben bene il pane, tostato o fresco, come più vi piace. Disporre le acciughine sott'olio (se usate quelle sotto sale, ricordarsi di lavarle) e uno o due capperini per fetta. Fatto. 

2 commenti:

Laura ha detto...

Vale!!!!!!😍Che bella questa storia e soprattutto che bello leggerti!!!
Lo sai che io ho una nonna che si chiama Irma e che è stata sarta fino all'età di ottant'anni, in famiglia non riuscivamo a rassegnarci a far fare ad un altro ciò che sapientemente lei aveva fatto per una vita :-) Io addirittura penso che gran parte della sua tenacia che spesso è tipica di chi fa da sè, sia stata distribuita in parti uguali a noi nipoti pur avendo passioni diverse. Io nella tua storia ti immagino benissimo come personaggio silenzioso e chiave allo stesso tempo!che dire, cara, avevo una gran voglia di ritrovare la tua gentilezza e la tua atmosfera in un tuo racconto!ti abbraccio!

Valentina ha detto...

*Laura...ma davvero??? Mi lasci sorpresa e commossa...
E questo racconto è in grandissima parte merito tuo, del tuo cuore, della nostra amicizia.

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